BRINDISI – Se avesse vinto Roberto Fusco avremmo avuto un sindaco che auspica la presenza sulla costa sud di dieci-quindici villaggi turistici. «Immaginate quanto lavoro ci sarebbe oggi per la città di Brindisi!», ha affermato con voce trasognante Fusco in consiglio comunale. Ora, a parte che abbiamo avuto modo di appurare quali orde di occupati abbia generato sulla costa nord la straordinaria capacità attrattiva e imprenditoriale della città. Ma poi, davvero una persona acculturata come Fusco pensa ancora oggi, nel 2023, che i villaggi turistici creino più sviluppo e migliore occupazione delle fabbriche? Senza allontanarsi dal mondo dei Cinquestelle di cui Fusco fa parte, basta citare Pasquale Tridico, il quale qualche mese fa scriveva su Repubblica che «quasi il 73% della forza lavoro in Italia è impiegata nei servizi, circa il 23,5% nell’industria e il 3,5% in agricoltura. Trenta anni fa il settore industriale impiegava oltre il 31% della forza lavoro, prevalentemente concentrato nel settore manufatturiero. Il problema sorge quando queste trasformazioni avvengono con un aumento in settori non avanzati dei servizi, a basso valore aggiunto, a scarso contenuto tecnologico, e quindi con scarsi guadagni di produttività, come turismo (ristorazione e alloggi), servizi alla persona. Il nostro Paese è caratterizzato negativamente da questa transizione verso servizi non avanzati. Nei Paesi avanzati e a redditi medio-alti solo la manodopera residuale viene impiegata in settori strumentali, del tempo libero, del turismo, della ristorazione, dove le innovazioni e i guadagni di produttività trovano dei limiti oggettivi e naturali, e in cui di conseguenza si hanno bassi salari e scarso valore aggiunto». Insomma, il principio secondo il quale i villaggi turistici siano preferibili all’industria chimica o energetica (restando agli esempi citati negativamente da Fusco) non pare trovare grandi estimatori, neppure tra i pentastellati.
E che Fusco abbia detto qualcosa di enorme (non in senso positivo) lo conferma anche l’economista pugliese Guglielmo Forges Davanzati, il quale spiega che «negli ultimi venti anni la Puglia ha accresciuto la sua dipendenza dal settore turistico più del resto del Paese: l’incidenza del turismo, nel periodo compreso fra il 1995 e il 2017, è raddoppiata, raggiungendo il 4,2%, a fronte di ciò che è accaduto nel resto d’Italia, dove la crescita del settore è stata di due terzi più bassa. La crescita del settore turistico è avvenuta di pari passo con la riduzione dell’incidenza dell’industria manifatturiera nella regione. Il turismo in Puglia non produce crescita perché non genera incrementi di produttività, perché i salari in quel settore sono molto bassi ed è elevata la presenza del sommerso. Nel confronto fra la dinamica del valore aggiunto per unità di lavoro fra settori produttivi emerge che la produttività del lavoro nel turismo pugliese è sostanzialmente stagnante e che è notevolmente più bassa di quella del settore manifatturiero. In più, la differenza fra gli andamenti del valore aggiunto per lavoratore nei due settori è crescente negli anni. Questa dinamica si riflette nel dato sui salari medi. Come accade anche altrove, i dipendenti delle imprese turistiche guadagnano molto meno dei dipendenti delle imprese manifatturiere e i differenziali salariali intersettoriali risultano in aumento negli anni. L’industria genera guadagni di produttività dal momento che lì si concentra l’attività di ricerca e sviluppo; attiva domanda per il terziario; genera beni esportabili e quindi fronteggia una domanda estremamente più ampia di quella con la quale si confrontano le sole attività turistiche. Si può anche richiamare il dato certificato da recenti ricerche per il quale sono fino a 5 i posti di lavoro che si vengono a creare nelle città americane per ogni nuovo addetto nelle professioni qualificate dell’industria e dei servizi ad esse assimilabili. L’assenza di una politica di sviluppo industriale in Puglia e la conseguente crisi della manifattura determinano bassa crescita della produttività e ristagno della domanda interna».
Tirando le fila, la direzione da intraprendere è esattamente opposta a quella indicata da Fusco. Lo spiega anche lo studio del Censis, dal quale si evince che nel territorio brindisino l’industria in senso stretto occupa poco più dell’11% del totale degli occupati, contro il 14,5% del dato pugliese ed il 20,3% del dato nazionale. Insomma, qui ci sono la metà degli occupati nell’industria rispetto alla media nazionale. Contestualmente, l’occupazione brindisina è connotata da una maggiore presenza di occupati in agricoltura: il 12,5% del totale contro una media regionale dell’8,8% ed un dato nazionale del 4,1%.
La visione bucolica e gli indirizzi che la politica locale sempre più imprime nella direzione di un ritorno al territorio inteso come giardino dell’Eden ci stanno man mano privando di un futuro prospero, o almeno non connotato da povertà diffusa. Se c’è qualcuno sveglio, al passo con i tempi e con la realtà, si faccia avanti.