Ipotizziamo di essere al 1 Gennaio del 2023. La guerra è finita. In qualche modo si è trovata una soluzione diplomatica che ha messo fine alla guerra, e lentamente i russi si ritirano dall’Ucraina. Tirato finalmente un sospiro di sollievo, ci si interroga però su come sarà il mondo da questo momento in poi. Abbiamo appreso una lezione molto spiacevole: che non è il caso di affidare il proprio fabbisogno energetico, o le proprie supply chain (le nostre catene del valore, o approvvigionamento di componenti fondamentali), a paesi inaffidabili o lontani dallo standard liberal-democratico occidentale. Come è oggi la Russia e domani potrebbe essere la Cina. Se aggiungiamo quanto avremmo dovuto imparare dalla lezione della pandemia, non è neanche il caso di cedere a Paesi lontani la produzione di beni necessari alla nostra sicurezza sanitaria.
Come europei, non possiamo neanche permetterci di rinunciare ad avere in proprio, sui nostri territori, le fabbriche per produrre i microchip, i semiconduttori che servono ai nostri telefonini, alle nostre automobili, e più o meno ormai a tutto il resto (l’Internet of Things, ricordate?). E poi, se vogliamo il pane e la pasta, dobbiamo avere il grano necessario, e sarà meglio capire quale sia la quantità minima necessaria di terre coltivate a grano per essere autonomi, almeno per poter mangiare tutti i giorni. Poi se dobbiamo scaldarci il prossimo inverno, capire se dobbiamo riaprire i caminetti a legna e le centrali a carbone, fregandocene del cambiamento climatico. O ripensare alle centrali nucleari? O rassegnarci a metterci due maglioni e stare in casa a 17-18 gradi, e vedere se anche così ce la facciamo, risparmiando prezioso combustibile per le nostre imprese, o se dobbiamo pensare a ridurre le speranze di crescita del Pil. Lo stesso discorso si può fare per altri beni, soprattutto nel settore della difesa, che richiederà un inevitabile surplus di investimenti a breve e medio termine. Non a caso la Germania, finora riluttante, ha già garantito ai partner della NATO che supererà il due per cento del Pil, investendo di botto cento miliardi di euro in nuovi armamenti.
Tutto questo di fronte a uno scenario in cui una “altra metà del mondo”, almeno da un punto di vista delle grandezze geografiche, sarà di nuovo tabù, dopo trent’anni di illusioni di “fine della storia”. A trent’anni dalla caduta dell’Unione sovietica e della divisione in due dell’Europa e del mondo, della mitica “cortina di ferro”, siamo ripiombati in quella realtà, che solo i più maturi di noi ricordano, in cui, per dire, non era tanto facile fare i turisti a Mosca o a Leningrado (ops, San Pietroburgo), se non previo visto, deposito del passaporto alla frontiera e rigido deposito di un programma di viaggio. Meglio, un viaggio organizzato, e ancora meglio con un accompagnatore locale, come usava ai tempi andati, in cui costui riferiva ogni nostro spostamento (previamente autorizzato) alle autorità di polizia. Altro che Erasmus…
Insomma, faremo un consistente passo indietro in quella che è sempre stata il bersaglio – non sempre a torto – della destra identitaria e nazionalista e della sinistra vetero-comunista e anticapitalista: la globalizzazione. E Internet? E i social media, che della globalizzazione sono stati gli emblemi e il fronte più avanzato? I russi hanno dimostrato che possono fare da soli, con una loro rete nazionale. Così, a maggior ragione, i cinesi, facendosi i propri social media. I primi con un mercato dì 150-200 milioni dì potenziali utenti, i secondi con ben più dì un miliardo e mezzo. Con la disconnessione dal sistema mondiale di Internet, l’11 marzo scorso, la Russia ha dimostrato di fare da sé, “proteggendo” gli usi e i costumi della sua gente, che non ha bisogno dì mescolarsi con il perverso Occidente (il patriarca ortodosso Kiril ha pure additato i gay come esempio delle sue perversioni), ma semmai con il lontano Oriente che le è amico. Inutile soffermarsi sulle implicazioni nefaste e pericolose di questo risorgente nazionalismo a livello planetario per le sorti dell’umanità. Finita la globalizzazione, finisce anche l’idea di poter essere tutti uguali, un’umanità senza confini.
Il perverso Occidente avrà capito, a questo punto, che serve il reshoring a tutta forza. Detto meglio, l’autarchia, una parola che evoca brutti ricordi, almeno per l’Italia. Cioè serve che certe cose si producano direttamente in patria, o in Europa, e quindi è ora di finirla con le industrie che fanno produrre in Cina e si limitano ad assemblare. Autarchia ci ricorda le sanzioni che l’Italia dovette subire dalle democrazie occidentali nel 1936, per via del nostro attacco all’Etiopia. Ci ricorda la mitica “battaglia del grano”, con le fotografie dì piazza Duomo a Milano trasformata in campo di grano. Ci ricorda della reazione dell’Italia fascista che, isolata dal resto del mondo, trovò accoglienza nella Germania di Hitler, con quel Patto d’Acciaio del 1939 che fu l’anticamera della seconda guerra mondiale. Tutti questi ricordi storici dovrebbero servire per evitare dì fare gli stessi errori del Ventesimo secolo. Di fare l’errore – già fatto, tuttavia, e non per colpa nostra – di spingere la Russia nelle braccia della Cina, che già oggi detiene il controllo sul 60 per cento delle terre rare che servono ai chip e che, prendendo Taiwan, avrebbe il controllo sull’80 per cento della produzione mondiale di microchip.
Autarchia versus Globalizzazione, infine, può essere una mazzata per un sistema industriale complesso e “iper-moderno” come quello lombardo, che dipende per il 20 per cento dal gas russo, e che da solo importa beni dalla Cina – cioè componenti, semilavorati e prodotti finiti – per quasi la metà di tutto il resto dell’Italia (10 miliardi/anno su 24). È un’economia intera che deve riorientarsi, in tempi brevi, per evitare che dì fronte a un nuovo conflitto ci si trovi in braghe di tela aspettando che arrivino i microchip dall’Estremo oriente. Passi se la nostra nuova auto non viene consegnata dopo un anno dì attesa, ma con i carri armati e i sistemi di puntamento come facciamo? Diciamo ai russi di aspettare un anno, o ricorriamo ai vecchi cannoni dei musei?
Francesco Caroli