Così non si può proprio andare avanti, lo scontro tra Ministeri e Regioni è insostenibile. Questo vale anche (e soprattutto) per la Sanità. Limitare, da parte del Ministero, l’eterogeneità dei modelli organizzativi e lasciare l’autonomia regionale nelle nomine dei vertici delle funzioni organizzative può essere la soluzione per calmierare questo lungo conflitto.
Sfogliando i giornali in questi giorni, i primi elementi che saltano all’occhio non sono soltanto le tragiche notizie del Covid e i relativi numeri incredibili dei malati, ma anche l’incredibile e costante scontro tra Istituzioni e il conseguente caos che si trovano a subire cittadini, operatori sanitari e della PA impegnati nell’emergenza.
L’esigenza di rivedere i livelli istituzionali delle competenze è una storia vecchia, aggravatasi dalle infelici modifiche del titolo V della Costituzione. La Carta italiana, infatti, agli articoli 116 e 117, regola la suddivisione della potestà legislativa per materia tra Stato e Regioni. Sono articoli su cui il Parlamento è intervenuto nel 2001 con la ormai famosa riforma del Titolo V, che ha modificato proprio la competenza a legiferare su determinate materie, assegnando proprio la Sanità al livello decisionale regionale. Così ora la sanità è il capitolo di spesa più importante dei bilanci regionali. Già nel 2016, la cosiddetta riforma Boschi, approvata dal Parlamento ma poi bocciata dagli elettori tramite referendum, introduceva una ‘clausola di supremazia’ che avrebbe consentito allo Stato di intervenire anche su materie sulle quali esso non ha competenza esclusiva in casi eccezionali, ovvero quando si tratta di interventi che riguardano l’interesse nazionale.
L’emergenza coronavirus ha riacceso i riflettori sui ‘limiti’ del Titolo V e la necessità che, in casi di emergenza appunto, lo Stato possa intervenire per evitare che ciascuna Regione decida autonomamente e in difformità rispetto alle altre. Per questo, il Partito Democratico ha presentato, ad inizio marzo, una proposta di legge ad hoc che prevede nuovamente la famigerata “clausola di supremazia” tipica di tutti gli Stati non solo regionali ma anche federali.
Seppur l’Italia sia di fatto eternamente fondata sullo stato di emergenza (e spesso sull’improvvisazione) occorre intervenire sulla competenza sanitaria non solo per migliorare la gestione delle emergenze e delle calamità ma, anche, la quotidianità del settore più delicato (e costoso) del Paese.
È evidente infatti la necessità di avere, a prescindere dal Covid, un sistema sanitario più omogeneo, più chiaro, più adatto al nuovo contesto sociale della nostra epoca. Dall’assistenza territoriale, ai modelli di governance, ormai le Istituzioni sanitarie sono tante e cambiano non solo le funzioni ma, addirittura, nome da Regione a Regione. Il Ministero deve proporre un modello uniforme, uno schema dunque più rigido, che lasci meno spazio all’interpretazione tra modelli completamenti diversi ispirati più dai singoli personaggi locali che gli hanno disegnati che dalle famiglie politiche di appartenenza (basti notare i modelli diversi di Lombardia e Veneto seppur entrambi frutto di anni di amministrazione di centrodestra).
Semmai, l’unica differenza organizzativa dovrebbe essere quella legata alle caratteristiche specifiche dei territori (densità abitativa, età media, ecc.) più che alla localizzazione geografica. E dunque le aree metropolitane dovrebbero avere una particolare struttura, le aree a media densità un’altra e le aree rurali un’altra ancora. Questo permetterebbe una risposta adeguata al territorio.
Alle Regioni potrebbe essere lasciata l’autonomia di decidere i nomi dei manager (Direttori Generali, di agenzie ecc.) che devono gestire le varie strutture. Questo permetterebbe di rendere concreta una simile riforma, svincolandola da eventuali sabotaggi burocratici e politici ispirati dagli amministratori locali (con le attuali leggi elettorali i veri campioni di preferenze sono i consiglieri regionali).
Insomma in attesa del modello ideale, un nuovo compromesso che possa permettere allo Stato di uniformare i sistemi sanitari, lasciando alla politica locale la decisione sugli amministratori pubblici. Questo meccanismo, a parere di chi scrive, non è da buttare: una buona politica, infatti, non sceglierà gli amici degli amici ma ottimi manager per dare risultati concreti ai suoi elettori. Allo stesso tempo il rischio è che una pessima politica farà pessime scelte ma, non dimentichiamolo mai, la differenza tra una buona politica e una pessima politica la fanno gli elettori nelle urne.
E’ la democrazia, tutto torna.
Francesco Caroli