Case e voti popolari: come hanno affossato una città e come Giuffrè e Rossi stanno provando a mettere una pezza
BRINDISI – Come si crea una massa debitoria di 70 mln di euro in un Comune della grandezza di Brindisi? La risposta la fornirono già nel dicembre del 2017 i commissari Giuffrè ed Albertini nel corso di una conferenza stampa indetta per fare chiarezza sui conti del Comune: ad esempio, non riscuotendo tributi, ticket sui servizi offerti e affitti sugli immobili commerciali e abitativi comunali.
L’emblema della strafottenza (interessata?) delle passate amministrazioni sul tema, è rappresentato proprio dalle dichiarazioni emerse in quella conferenza: “Solo adesso è stato dato mandato ad Abaco di inoltrare le ingiunzioni di pagamento, fino ad ora misteriosamente bloccate”, affermò sibillino Santi Giuffrè.
Tre anni dopo, qualcosa si è mosso, con l’Amministrazione Rossi che sul fronte dell’edilizia residenziale pubblica ha compiuto passi in avanti. Intanto, lavorando – nel limite del possibile consentito dalla esiguità del personale a disposizione – sull’eliminazione dell’opacità, attraverso: un censimento degli immobili; sgomberi di una parte delle occupazioni abusive; verifiche sugli occupanti (abusivi e legittimi) e sulla morosità o meno dei secondi; la predisposizione di una graduatoria dei legittimi assegnatari delle case popolari e di un piano di alienazione del patrimonio residenziale pubblico a favore dei conduttori che volessero acquistare gli appartamenti nei quali risiedono; proposte di piani di rateizzazione e accordi avanzati ai morosi.
Uno sforzo apprezzabile, soprattutto se rapportato all’inerzia del passato, che il Sindaco ha pubblicamente ricondotto a pratiche elettoralistiche.
Uno scherzo costato alla comunità brindisina un piano di riequilibrio ventennale, ma soprattutto un fondo crediti di dubbia esigibilità pari a 11 milioni di euro. Una somma enorme, che il Comune è costretto a tenere bloccata (invece di impiegarla magari proprio per affrontare i problemi relativi all’emergenza abitativa) per l’incapacità o la mancata volontà di riscuotere crediti che inesorabilmente diventano inesigibili.
Da qui le anticipazioni di cassa, gli interessi da pagare che vanno a ingrossare l’ammontare del disavanzo, l’impossibilità di contrarre mutui e tutto quello che rende questa città invivibile.
Con più dell’80% di assegnatari di case popolari in stato di morosità, però, deve essere necessariamente posta anche un’altra questione, che inerisce quella cultura dell’illegalità che a Brindisi, incoraggiata spesso dalle istituzioni, continua a proliferare ed a rubare il futuro delle generazioni Y e Z. L’impossibilità degli inquilini di pagare, infatti, è una storiella che ci raccontiamo per zittire le coscienze, ma davanti ad affitti per importi di 25-30-50 euro al mese, a morosità che ammontano a decine di migliaia di euro (indice di un arretrato di decenni per alcune generazioni di assegnatari) ed a misure di welfare come il reddito di cittadinanza o i sussidi per gli affitti, è davvero plausibile parlare di stato di necessità? O è più realistico immaginare una comunità dedita tout court all’infrazione sistematica e sistemica delle norme, che prevedono astrattamente l’attivazione da parte dei Comuni delle procedure di sfratto dopo 6 mesi di morosità ma che invece, in concreto, non vengono fatte rispettare per anni, decenni, da parte di amministratori pubblici compiacenti?
Già che in questa consiliatura non sia stata assegnata una delega all’Ufficio Case, lascia presupporre che almeno in questo campo la musica stia cambiando. Anche perché, con la Corte dei Conti che alita sul collo, reiterare quelle pratiche significherebbe andare a casa immediatamente.