Quella favolosa Roma anni novanta. “Notti magiche” di Paolo Virzì oggi e domani alle 21 all’Eden
BRINDISI – È davvero difficile che le varie umanità descritte nei film di Paolo Virzì non siano interessanti o non siano così vere da assomigliare a qualcuno che conosciamo già. È anche per questo che i personaggi dell’universo del regista livornese entrano nel cuore degli spettatori e nell’immaginario collettivo: siamo noi o sono quelli che ci sono intorno. E sono il risultato del rapporto che la Storia ha con le storie dei singoli, una commistione di eventi grandi che entrano nelle vite comuni, la prova che le nostre vite sono inevitabilmente il risultato del periodo in cui viviamo.
Anche in “Notti Magiche” viene rievocato un periodo stampato nella memoria di molti: l’estate dei mondiali del ’90. A Roma, durante la notte in cui l’Italia viene battuta dall’Argentina ai rigori e vede infrangersi il sogno – cullato sulla scia dell’exploit di Totò Schillaci – di sollevare la coppa in casa, il cadavere del produttore Leandro Saponaro viene ritrovato nel Tevere. Insieme a lui una fotografia che lo ritrae con la sua giovane amante e con i tre giovani finalisti del Premio Solinas. Sono questi ultimi i protagonisti del film, tre attori esordienti (cosa alla quale Virzì ci ha abituato negli anni) che danno vita a tre personalità estremamente diverse: Eugenia, romana, borghese, nevrotica, insicura; Luciano Ambrogi, livornese come Virzì, sfrontato, disinvolto, dall’entusiasmo elettrico; Antonio, siciliano, metodico, manieristico e compassato. Tre ragazzi, tre sguardi sul mondo, la cui avventura romana viene raccontata con un ping pong di flashback e presente (la caserma dei carabinieri).
“Notti magiche” è una commedia gialla, dove la morte misteriosa è solo un pretesto per un grande omaggio, affettuoso, innamorato, a quella Roma sempre caotica ma tanto creativa, a quell’universo del cinema fatto di attori, sceneggiatori, produttori, miracolati e non, di artisti, registi, di noia e rimedi alla noia, a quella babele di divismo e antidivismo che è la storia del nostro cinema. Gigantesca la prova di Roberto Herlitzka (nei panni dello sceneggiatore Fulvio Zappellini) a cui basta una scena per illuminare il film; notevole anche il sempre enorme Giancarlo Giannini che dà il volto allo scriteriato produttore Leandro Saponaro; brillante Marina Rocco, l’amante del produttore, una caratterizzazione che ha sollevato gli entusiasmi anche dei critici internazionali.
Tuttavia è come se a questo film mancasse qualcosa. Una volta gettati in pasto allo spettatore le critiche al vuoto di idee che ha caratterizzato parte del cinema al crepuscolo degli anni d’oro, alla de-professionalizzazione del mestiere dell’attore, alla sensazione di essere rimasti orfani dei grandi maestri del cinema, Virzì manca la scena memorabile, emozionante, manca forse quel pezzetto di cuore che lascia in ogni suo film, nonostante – forse – questo film fosse “suo” più di ogni altro. In fondo, il ragazzo che arrivò a Roma da Livorno in quelle notti magiche degli anni ’90 era proprio lui.
Francesca Taurisano