Brindisi si candida a Capitale della cultura e dell’industria. Fine dell’incubo…e del sogno
BRINDISI – Il festival delle transizioni. È il titolo che il sindaco Marchionna ha suggerito agli organizzatori tarantini del Cinzella per sottolineare la fase di passaggio e trasformazione economico-sociale che stanno vivendo i territori di Brindisi e Taranto. Al momento, è chiaro dove sta andando la città di Brindisi: alla deriva. Più che una transizione, dunque, è un corteo funebre. Ai lati della bara, ali di cittadini e politici che al grido “piccolo è bello”, “decrescita felice”, “no”, stanno scavando la fossa sotto i loro piedi. Che la classe politica locale sia inusitatamente inadeguata lo testimoniano anche episodi che potrebbero apparire come inezie. Un esempio: da quando è stata istituita la competizione per diventare Città italiana della cultura, si è registrata praticamente la partecipazione di tutti i capoluoghi di provincia pugliesi e di un’infinità di piccoli Comuni. Brindisi, invece, non ci ha mai provato. Ma neppure pensato. È la cartina al tornasole di un’assoluta mancanza di lungimiranza delle nostre sciagurate e sciapite classi dirigenti. Non è un caso che con Mennitti la città tentò di candidarsi a capitale della cultura, ma europea! È accaduto così che a partecipare fosse la supplente Mesagne, che nel proprio dossier di candidatura ha inserito per tre quarti elementi riferibili a Brindisi. E non poteva essere diversamente, dato che tra le due città non c’è – o meglio, non ci dovrebbe – essere competizione. Ma vai a spiegarlo ai brindisini.
Una comunità senza visione e senza orgoglio è destinata allo spegnimento. Più diventi piccolo, più sei irrilevante. Più ricchezza perdi, più veloce sarà il processo di autoconsunzione. Pertanto non deve sorprendere che la dieta dimagrante attuata dai governi post crisi del 2008, caratterizzata da piani di razionalizzazione della spesa e accorpamenti, si sia abbattuta soprattutto su province giovani e su città come Brindisi, in grande decrescita demografica ed economica. Una condizione che si riverbera anche sul minore peso – proprio aritmetico – della rappresentanza politica. Ed ecco che via via si è assistito inermi all’accorpamento della Camera di commercio a quella di Taranto, dell’Autorità portuale a quella di Bari, al tentativo di far diventare Brindisi provincia di Lecce, alla chiusura della sede della Banca d’Italia (e che un immobile così appetibile rimanga ancora chiuso restituisce anche la scarsa attrattività che sconta la città). E poi alla fuga delle grandi imprese, al rischio di perdere il centro Enav. Un domani, quando diventeremo ancora più piccoli, magari verrà accorpata anche la sede dell’Inps, verrà ridimensionato l’aeroporto, si impoverirà ulteriormente l’offerta commerciale, quella (già misera) universitaria e tutto il settore terziario sviluppatosi a valle del comparto industriale. Non è uno scenario distopico, apocalittico. È quello che sta accadendo e che continuerà a succedere se questa città non individuerà la strada per arrestare la caduta libera, la spirale nella quale l’hanno ficcata le contingenze mondiali ma anche l’impoverimento del capitale umano e sociale che l’affligge. In questi anni, mesi, gli unici antidoti che la politica brindisina è riuscita a tirare fuori sono stati tarati su pensieri profondi come “Brindisi ai brindisini” e sulla necessità di “sventolare la bandiera biancazzurra”. Giusto quello che giustifica l’incredibile scadimento di una città che avrebbe bisogno di maggiori contaminazioni, investimenti esteri, immigrazione. Insomma, di tutto quello che potrebbe aiutarla ad uscire da un provincialismo criminale che la porta a ripiegarsi in confini e steccati sempre più piccoli. Del tipo: “Vogliamo l’Autorità portuale del Salento”. Come se unire le forze con Gallipoli e Otranto possa rappresentare un vanto e un vantaggio per un porto tra i più importanti del mondo come il nostro e non invece uno smacco, qualcosa di cui vergognarsi solo a pensarlo. Ma questi sono crampi mentali figli dell’idea che bisogna invidiare Gallipoli e Otranto perché turistiche, invece di considerarle città povere di opportunità e quindi costrette a quel modello precario di sviluppo. Brindisi è terra fortunata che ha avuto la sola sfortuna di essere abitata da una comunità tanto imbastardita negli anni da non capire più chi è e cosa vuole. Per iniziare, si potrebbero accantonare velleità suicide e si potrebbe ripartire dalla valorizzazione dei punti di forza della città, che coincidono con quelli che, dichiarazioni dello Svimez alla mano, sono i settori che hanno maggiore possibilità di crescita nel prossimo futuro: l’industria, intesa soprattutto come filiera strategica dell’energia, con i porti del Mezzogiorno e le aree retroportuali che si candidano a diventare luoghi centrali a livello geopolitico e quindi economico. Non il turismo, che può solo accompagnare, ma l’industria, per la Svimez, rappresenta l’oro del Mezzogiorno. Noi saremmo in pole position. Servirebbero solo una politica industriale statale e una testa nuova per i brindisini ed i loro improponibili rappresentanti. D’altronde, in carenza di un adeguato capitale umano e quindi sociale, non ci può essere vero sviluppo economico.