In tempi emergenziali, infatti, esiste solo il presente. C’è tempo solo per gestire le urgenze – di solito accompagnate da pesanti “cure” economico-sociali che prefigurano scenari e impongono comportamenti austeri e monacali – e tutte le energie sono dedicate a spegnere gli incendi.
Ed è altresì evidente che perorare cause da riformisti comporti invece l’essere divisivi, coraggiosi, pronti al confronto e, alle volte, alla battaglia in un dibattito che si congedi dall’asfissia del presente in emergenza e si dedichi ad immaginare un futuro diverso e migliore. Da cosa far partire, oggi, una rinnovata “spinta propulsiva” per una primavera riformatrice italiana? Una domanda, questa, dalle risposte a tinte fosche.
I grandi tentativi di ammodernamento di questo Paese sono naufragati nelle beghe bagatellari da peggiore Italietta o nei nulla di fatto di una politica eternamente gattopardesca. Le cronache degli anni ’80 (con le proposte socialiste) e poi il 1997, il 2006, il 2016 ne sono appunto gli esempi più tragici.
Eppure oggi sta accadendo qualcosa di più grande del nostro dibattito sempre uguale a se stesso. Forse oggi non possiamo più permetterci di valutare se fare o meno una serie di grandi riforme, poiché è la storia che ce lo impone. C’è un avversario lungo questo cammino, il più infido: quello costituito dal plotone dei sabotatori interni, quegli eredi di una tradizione riformista di sinistra che oggi negano persino le proprie radici. Coloro che negano il sostegno alla resistenza eroica del popolo ucraino trincerandosi dietro a un pilatesco pacifismo di comodo, nel quale credono di potere essere giudici: né con gli uni né con gli altri, ma abbarbicati alla nostra bandiera della pace nel nostro mondo di unicorni in volo suonando il piano con l’orchestra del Titanic mentre la nave mantiene solo pochi piedi in superficie. E da eredi dei partigiani, i quali furono eroici resistenti che non sfilarono con le bandierine ma combatterono ardentemente una guerra di liberazione, diventano arrendevoli disertori, pronti a evocare i fasti di vittorie che altri hanno conseguito, consegnandoci una società libera nella quale non c’è ragione per abbandonare il comodo divano in pelle mentre la TV ci racconta del mondo.
Che è la stessa identica diserzione di chi tesseva le lodi alla Costituzione “più bella del mondo”, non tanto riconoscendole un merito, quanto inaugurando con essa una nuova epopea di conservatorismo, decisamente più ipocrita e meno sopportabile di quello destroso.
Fra il ’46 e il ’48 i migliori fra politici e giuristi, statisti e illuminati pensatori, produssero uno sforzo intellettuale di costruzione delle nostre nuove regole fondamentali che rappresentavano un capolavoro di futuro: solidarietà, cooperazione internazionale, centralità del lavoro, organizzazione dello Stato, Istituzioni rappresentative democratiche, ruolo di Governo e Capo dello Stato, una sinfonia di libertà e di democrazia che restituiva ad un popolo di sudditi dignità e diritti rendendoli liberi, consapevoli, cittadini. In quelle parole, in quei commi, in quei versi di poesia del diritto veniva ricacciato e demolito il retaggio della dittatura oscurantista e sanguinaria, della brutalità della privazione dei diritti e delle libertà che il fascismo aveva rappresentato nel ventennio precedente. Ma cifra di quell’operazione era l’innovazione. In nessuna parte della Costituzione, dei suoi propri atti preparatori o nelle intenzioni dei padri costituenti vi era l’idea che potesse trasformarsi in una nomocrazia o che si trattasse di leggi immodificabili, eterne, consegnate agli unti dal Signore dopo essere state scolpite su tavole di roccia.
Nell’arroccamento del non voler cambiare nulla perché ogni modificazione rappresenterebbe una pericolosa “deriva autoritaria” si costruisce oggi la negazione di quella storia nobile, la negazione della Resistenza stessa e dei suoi valori, in favore del conservatorismo di domani.
Ma nei fatti, l’unica vera deriva autoritaria prolifera nel governo della burocrazia e della tecnocrazia o nei governi della improvvisazione da “contratto”, scegliendo un terzo qua e là, magari qualche professore senza arte ne parte ne attività politica in grado di legittimare una forma priva di sostanza. La deriva autoritaria oggi vive nel ribaltamento degli inquilini di Palazzo Chigi ogni qualvolta accada qualcosa di leggermente straordinario. La deriva autoritaria si consuma nel non potere decidere nulla e nel non poter eleggere nessuno, e la esercita chi, fingendosi democratico, ci impedisce di eleggere un Capo del Governo o un Capo dello Stato.
Un serio dibattito sulle grandi riforme, sull’efficientamento delle Istituzioni, sulla democrazia in Italia è risulta quindi necessario oggi. Oggi, sì, proprio in questo preciso istante, anche se là fuori ci sono la guerra e la pandemia; anzi, forse proprio per questo è necessario intervenire tempestivamente. Diversamente, ad ogni crisi internazionale o accadimento saremo sempre costretti a ribaltare i governi esistenti per insediare super tecnici più o meno politici, che unendo tutti decidano da soli e che con i provvedimenti emergenziali, aventi o non aventi valore di legge, potranno decidere delle nostre vite e libertà: perché questo è accaduto.
Nei fatti, E’ come se affrontassimo il mare con un equipaggio eletto appositamente per timonare la nave, ed uno sempre di scorta perché già sappiamo che, alle prime onde alte, sarà necessario liquidare i titolari in favore delle riserve. Eppure, In nessun Paese europeo la pandemia o la crisi economica del 2011 hanno determinato un tale cambio della guardia: dalla Francia alla Spagna, dalla Germania all’Inghilterra, finanche agli Stati Uniti chi era stato eletto ha potuto proseguire il suo mandato.
Chiudiamo quindi la stagione delle ipocrisie e apriamo a quella della modernità: perché o cambiamo o saremo costretti a regredire sempre più. Non possiamo attendere che il 2022 trascorra come l’anno nel quale cerchiamo di conformarci alle scelte della NATO o del Comitato Tecnico-Scientifico mentre facciamo i compiti per casa della UE in cambio dei soldi del Pnrr: al contrario, questo può essere un anno costituente e ci sono i tempi perché lo sia. E può esserlo smettendo di avere politici con magliette per l’occasione o urlatori professionisti, e riformisti di facciata sposati con i populisti (oggi elevati a classe dirigente costituente).
L’azione del governo dev’essere efficientata. E ciò va fatto in termini di velocità e possibilità di incidere con gli strumenti dell’ordinario e non nella eccezionalità di DPCM e Decreti d’urgenza. Serve interrogarsi sulla democrazia prima che l’inverno demografico diventi gelo democratico: in Italia non eleggiamo nessuno. Non eleggiamo il Capo dello Stato, non eleggiamo il Capo del Governo, non eleggiamo i Parlamentari. Basterebbe partire da questo ultimo e semplice punto: siamo figli di una storia che ci portava a tutelare la rappresentanza con il proporzionale, ma che ci consentiva anche di eleggere direttamente e per voti di preferenza i parlamentari. L’abbiamo azzerata nel contesto di demolizione della politica che si è consumato tragicamente 30 anni fa in una rivoluzione che ha travolto leader, Partiti, finanziamento e regole democratiche e ci ha consegnato questa scadente partitocrazia 4.0, con tanto di impossibilità di eleggere nessuna delle persone che a livello nazionale ci governano e rappresentano, ed inoltre siamo ancora convinti che quanto sia accaduto sia stato giusto o migliorativo.
Se proprio non si può parlare di introdurre i collegi uninominali con doppio turno per ogni seggio, che almeno ci sia un sistema con preferenze (di genere) per tutti, così da dare almeno un primo timido segnale. Ben altri tuttavia sarebbero i segnali necessari e le riforme delle quali necessiterebbe il Paese.
Usciamo da questo “assoluto presente” e riprendiamo la via verso il futuro. Se non lo facciamo oggi, in piena contingenza problematica globale, non usciremo mai dalle stagioni delle emergenze che diventeranno la normalità e la politica non sarà che un ricordo del passato, in barba a qualunque tipo di riformismo.
Francesco Caroli