Dobbiamo dirci tutto, anzi no – Super accoglienza al Verdi per “La menzogna” con Autieri e Calabresi
Potrebbe essere tutto vero. O tutto falso. Dipende. O non dipende da niente. L’amore per l’esasperata contrapposizione dialettica del drammaturgo francese Florian Zeller regala al pubblico brindisino del Verdi una commedia di inganni ed equivoci che vede in scena due istanze opposte interpretate magistralmente da due brillantissimi Serena Autieri e Paolo Calabresi: dirsi sempre la verità o mentire per autoconservazione? Il dilemma parte da Alice (Serena Autieri, davvero brava anche in alcuni cambi di tonalità delle battute e in alcuni repentini passaggi di registro) che, alla vigilia di una cena con due amici, Michele e Lorenza, scopre che Michele tradisce Lorenza. Dirlo o non dirlo? Mentire o dire la verità a costo di ferire? Ovviamente mentire, tuona Paolo (un Paolo Calabresi stre-pi-to-so). Naturalmente dire tutta la verità, controbatte Alice. Inizia così una battaglia dialettica fatta di battute brevi che trascinano lo spettatore in un ritmato vortice di dissimulazioni, di bugie, di convinzioni cervellotiche e spesso fallaci. O forse veritiere. L’intrigante opera di Zeller, in fondo, non fa altro che raccontare come sia fragile l’architettura che tiene insieme le relazioni. E se uno dei due nella coppia rivendica l’inganno coniugale come virtù morale (“qualche volta mentire è una prova d’amore”) e l’altra la verità come requisito essenziale di una sana relazione (“non ho mai sopportato la menzogna”), le cose cambiano quando l’inganno si subisce e la verità si ascolta. Una battaglia metaforicamente sanguinosa tra due principi retorici contrapposti ma entrambi validi che ricorre a teatro e che affonda le sue radici in quello greco; nell’Antigone per esempio. Anche ne “La menzogna” abbiamo il conflitto tra un principio razionale maschile (“se tutte le coppie si dicessero la verità non ci sarebbero più coppie sulla Terra”) e una pietas femminile legata a degli obblighi relazionali. Solo che in questo caso le cose sono meno dicotomiche, più sfumate, anzi più confuse; chi vuole la verità mente, chi vuole mentire dice la verità. E viceversa, in un continuo e alternato scambio di piani. Un segno dei tempi, i nostri, in cui non esistono confini netti tra le cose. Se il duello di prospettive tra Paolo e Alice non diventa guerra è solo per una specie di tacito armistizio – che arriva un po’ per sfinimento e un po’ per istinto di sopravvivenza (“devi credermi, se vuoi che anch’io ti creda”) -, avviluppato nella rete di inganni che, secondo il cinico sguardo di Zeller, è il matrimonio. Così, quel “ti devo parlare” di Alice all’inizio si trasforma, man mano che la commedia va avanti, nell’innesco di una deflagrazione che rimane sospesa; alla fine dire la verità o non dirla non conta più come all’inizio, non importa più chi tradisce chi e con chi: noi spettatori lo sappiamo, i protagonisti in scena lo hanno ormai capito ma è come se nulla fosse mai successo e il tragicomico gioco tra verità e menzogna fosse imploso in uno status quo. Nel fascino necessario della bugia.
F. Taurisano